Ucraina e Normandia, unite nell’inferno

Tra esattamente un mese sarà un anno dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. E’ un fatto. Tragico. Mi sono venute in mente le immagini di un’altra invasione, un’altra guerra, un altro inferno nel cuore dell’Europa. Sono le immagini che ho scattato l’estate scorsa a Falaise (Calvados). Questa cittadina normanna a 40 chilometri a sud di Caen è stata la protagonista di una delle più violente battaglie della storia della liberazione della Normandia, della Francia e dell’Europa dall’ invasione nazista. Sto parlando della Sacca di Falaise, che avvenne due mesi dopo lo Sbarco in Normandia, nell’agosto 1944.

Una battaglia che pose fine a 90 giorni di durissimi combattimenti contro l’esercito del Terzo Reich e segnerà l’inizio della fine per l’esercito tedesco. Parigi verrà poi liberata il 24 agosto.

Il 7 agosto  il 2nd Canadian Corps parte da Caen, appena liberata, verso Falaise. Di fronte ha tre divisioni tedesche, tra le quali la famigerata 12a SS Hitlerjugend, che oppongono una violenta resistenza. Ci vorranno 10 giorni prima che gli alleati, anglo-canadesi e polacchi, raggiungano Falaise. 

La Sacca di Falaise fu un vero e proprio inferno: oltre 12 mila tedeschi uccisi e 50 mila fatti prigionieri, gravi perdite tra le truppe canadesi (5.500 tra morti, feriti e dispersi) e polacche (1.400 morti). La devastazione totale. L’odore dei cadaveri in decomposizione si sentiva a chilometri di distanza. Una battaglia che inoltre lasciò sul terreno di guerra un’immensa quantità di materiali bellici, per sbarazzarsi dei quali bisognerà attendere i primi anni Duemila.

Ero stata varie volte a Falaise, ma l’estate scorsa ho scoperto l’opera di uno dei pionieri della street art, Jef Aérosol. Le foto che vedete raccontano le toccanti creazioni di questo artista di Nantes esposte davanti al Mémorial de Falaise, un museo tutto dedicato alla vita e alle sofferenze dei civili che subirono gli anni dell’occupazione tedesca e dello sbarco in Normandia nel 1944.

Questo dandy delle bombolette spray ha lasciato la sua impronta sui muri di molte città in tutto il mondo. I suoi ritratti in bianco e nero, illustri o anonimi, spesso dipinti a grandezza naturale, testimoniano l’attaccamento dell’artista ai più profondi valori umani. Impossibile non vedere in questi volti la stessa disperazione della popolazione ucraina.

Le opere che vedete sono state realizzate da Jef Aérosol tra il 2 e il 7 maggio 2019, davanti agli abitanti, ai passanti e ai turisti nella bellissima piazza dedicata a Guglielmo il Conquistatore (nato a Falaise nel 1027). Tratti da materiale d’archivio, i ritratti sono stati rilavorati nel suo atelier e trasposti in forma di stencil. Osservando i volti di questi uomini, donne e bambini, risuona forte un grido d’aiuto, ma soprattutto la parola “pace”. E sinceramente mi chiedo come sia possibile che gli errori e gli orrori della Seconda guerra mondiale non abbiamo insegnato nulla.

Addio a Elisabetta, ‘the Queen, Our Duke’

Sapevate che Elisabetta II, oltre che regina d’Inghilterra, era anche duchessa di Normandia? Anzi duca, al maschile. È una lunga storia che vale la pena raccontare…

Tra i 130 milioni di sudditi di Sua Maestà che l’8 settembre scorso sono rimasti orfani della loro amata Regina, ci sono anche molti normanni.

Dal 2 giugno 1952, giorno della sua incoronazione, per gli abitanti delle isole franco-inglesi nel Canale della Manica lei è sempre stata “il duca”, al maschile.

Perche’ duca e non duchessa?

Il ritratto, senza corona, di Elisabetta “duke of Normandy”, nel palazzo dell’Assemblea di Jersey.

Nonostante facciano parte della Normandia, Jersey, Guernsey, Alderney, Sark, Herm, Jethou, Brechou e Lihou sono sotto la corona britannica. Da mille anni sono infatti governate dai re e dalle regine inglesi.

Bandiere a mezz’asta a Jersey per la morte di “the Queen, our duke”.

Ma perché “Duke of Normandy” e non “Duchess”? La spiegazione è semplice: nella gerarchia degli appellativi reali, “Duke” è più forte di “Duchess” e niente può essere più forte di un monarca; quindi, lui o lei, indipendentemente dal sesso, deve rimanere il più forte. Ecco perché il nome resta al maschile.

Se Lilibeth era “Duca di Normandia”, era però “Duchessa di Edimburgo”. Come mai, vi chiederete? Perché era moglie del Duca di Edimburgo, il Principe Filippo, il suo adorato consorte morto l’anno scorso.

Comunque, ora tutta questa strana gestione dei titoli è finita: con Carlo III la regalità torna a essere maschile.

Lilibeth e la Normandia: un grande amore

Ieri, mentre aspettavo di ascoltare il primo discorso del nuovo re d’Inghilterra Carlo III, ho indagato un po’ e ho scoperto che anche la mia regale omonima aveva un rapporto particolare con la Normandia.

Basti dire che Elisabetta è stata incoronata nello stesso luogo, l’Abbazia di Westminster a Londra, dove furono incoronati i suoi avi Guglielmo il Conquistatore (primo re normanno d’Inghilterra) e Riccardo Cuor di Leone.

Ma non è solo per questo che Lilibeth amava questa terra.

Ecco alcune delle sue visite, ufficiali e non, rimaste nella storia.

Rouen, 1972

La Regina Elisabetta e il Principe Filippo lasciano Rouen a bordo dello yacht Britannia il 19 maggio 1972 • © Agence France Presse

Siamo nel maggio 1972 e la regina e suo marito Filippo stanno completando il loro viaggio ufficiale in Francia. Arrivano in treno alla stazione di Rouen da Parigi.

Per gli abitanti della cittadina normanna è un giorno quasi festivo. Molti dipendenti vengono autorizzati a partire per partecipare a questo evento e agli studenti viene concesso di non andare a scuola. Rouen viene invasa dalle bandiere e decorata con fiori.

La coppia (entrambi parlavano perfettamente il francese) fa prima un passaggio davanti alla cattedrale, poi si reca davanti al monumento di Giovanna d’Arco in Place du Vieux-Marché. Un momento importante: la Regina omaggiava l’eroina torturata dagli inglesi.

Elisabetta e Filippo vengono quindi portati sulla riva sinistra del cimitero militare nel distretto di Saint-Sever, dove dalla Prima guerra mondiale sono sepolti migliaia di soldati del Commonwealth.

Lilibeth e il Principe torneranno nel loro regno a bordo dello yacht Britannia, che consideravano la loro residenza preferita, in un’atmosfera degna dell’Armada.
Salperanno salutati dall’ovazione dei tanti normanni presenti (e ci sarà anche un uomo che fuggendo ai controlli cercherà di salire a bordo).

Deauville, 1967

La Regina Elisabetta arriva a Deauville, 1967.

La passione sfrenata per i cavalli e per le corse porterà molte volte sua Maestà in Normandia. È il 29 maggio 1967 quando Elisabetta arriva all’aeroporto di Deauville-Saint-Gatien per visitare le migliori fattorie e allevamenti di cavalli della regione francese.

Il Libro d’Oro di Deauville firmato dalla Regina Elisabetta nel 1967..

La sovrana ne approfitta per visitare i famosi allevamenti (haras) normanni. Per tre giorni si stabilisce nel castello di Sassy, ​​tra Argentan e Alençon. Attraversa la campagna dell’Orne e visita in particolare l’Haras du Pin.

Vent’anni dopo, nel 1987, la Regina amazzone tornerà dai suoi adorati purosangue, accogliendo l’invito dell’allenatore Alec Head, proprietario dell’Haras du Quesnay, nei pressi di Deauville. Incontrerà anche Philippe Augier, allora amministratore delegato dell’agenzia francese di vendita di purosangue.

Elisabetta II nell’allevamento di Quesnay nel 1987 (archivio Ouest France)

In quella occasione, la Regina approfitta per fare un salto nell’elegante cittadina costiera, dove verrà eccezionalmente autorizzata ad attraversare a bordo della sua Rolls Royce le celebri Planches di Deauville.

La Regina Elisabetta nella sua Rolls Royce sulla spiaggia di Deauville.

Veterana della Seconda Guerra Mondiale

La Regina Elisabetta era una veterana della Seconda guerra mondiale: era stata assistente di ambulanza per l’esercito britannico. E’ stata l’ultima sovrana europea ad aver vissuto i bombardamenti su Londra, nel 1940, e all’epoca dello sbarco degli alleati aveva 18 anni.

Dal canto suo, Filippo era il nipote di Louis Mountbatten, capo del quartier generale dell’Operazione Jubilee, lo sbarco canadese a Dieppe nel 1942.

Non sorprende quindi che durante il suo lungo regno abbia partecipato regolarmente alle commemorazioni del D-Day.
Come nel 1984, quando al fianco di Ronald Reagan e François Mitterrand si reca a Utah Beach e ad Arromanches per salutare e ringraziare i veterani britannici.

Nel 1994, per il 50.mo anniversario dello sbarco, visita il cimitero americano di Colleville-sur-Mer e Omaha Beach al fianco di Bill Clinton.

La Regina Elisabetta alla commemorazione del D-Day il 6 giugno 1994.

Nel 2004 torna ad Arromanches con Jacques Chirac, George Bush e Vladimir Putin.

Elisabetta con Bush, Chirac e Putin ad Arromanches nel 2004.
La Regina Elisabetta con Jacques Chirac nel 2004.


Quella volta Lilibeth cerca anche di ritagliarsi un momento privato: viene “beccata” a Honfleur, gioiellino sulla costa del Calvados, mentre entra in uno dei tanti ristoranti che si affacciano sul vecchio porto. La voce dell’arrivo della sovrana si è sparsa a macchia d’olio: giornalisti, telecamere e turisti si accalcano davanti al ristorante. Lei entra senza fermarsi. La vera notizia è che non indossa uno dei suoi iconici cappelli.

Esce poco dopo, ma non si ferma a salutare i tanti fan, soprattutto inglesi, che nel frattempo la attendono per vederla da vicino e immortalare l’evento.  Nessuno però gliene farà una colpa. Anche una Regina ogni tanto ha diritto a mangiarsi una cosa in santa pace….

Il suo ultimo viaggio in Normandia

Il suo ultimo viaggio ufficiale in Normandia risale al giugno 2014, per il 70.mo anniversario del D-Day. La regina, all’epoca 88enne, accompagnata da Carlo e Camilla e dal presidente François Hollande, si troverà al fianco dei leader mondiali, tra i quali Barack Obama, Vladimir Putin, Giorgio Napolitano e Angela Merkel.

La Regina Elisabetta nel suo ultimo viaggio in Normandia per le celebrazioni del D-Day, 2014.

L’8 settembre 2022 l’iconica e inimitabile Queen Elizabeth II ci ha lasciati. La monarchia regge (per ora), ma una cosa è certa: nessuno altro re o regina sarà come lei, “Our Queen, Our Duke”.

Alla prossima!

Red Ball Express, il lungo convoglio che portò alla vittoria

Seimila camion per supportare gli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale

Non molti lo sanno, ma durante la Seconda Guerra Mondiale agli americani venne un’idea geniale: il Red Ball Express, un lungo convoglio di mezzi militari che diedero supporto agli alleati portandoli alla vittoria.

140 veicoli attraverso la Francia

Non sono mai stata un’appassionata del mondo militare, non sono un’esperta di armi e di strategie di guerra. Ma assistere ad una delle tappe del Red Ball Express è stato davvero emozionante. E’ successo lunedì scorso in una Argentan bollente (42 gradi!) ma in festa per l’arrivo, dopo due anni di pandemia, dell’attesissimo convoglio storico. In tutto 140 veicoli militari della Seconda Guerra Mondiale che partiti da Marigny-le-Lozon nella Manche fino a Saint-Michel alle porte del Belgio, hanno attraversato la Francia, facendo la prima tappa nella cittadina normanna rasa al suolo il 5 giugno del ’44 e liberata il 20 agosto dalla 80.ma divisione di fanteria americana.

Tre mesi per entrare nella storia

L’idea del Red Ball Express nasce durante l’estate del ’44 dopo una riunione dei capi militari americani durata 36 ore: l’obiettivo era dare supporto alle truppe alleate che avevano serie difficoltà a respingere i tedeschi. Eh s’, perché dopo lo sbarco in Normandia gli alleati avanzavano molto a rilento. Si temeva una lunga guerra di trincea, visto che ogni tentativo di sfondare veniva costantemente vanificato dalla disciplinata resistenza tedesca. C’era assolutamente bisogno di munizioni, viveri, medicinali, armamenti, carburante. Il risultato fu che in meno di tre mesi, circa 6 mila camion con i loro rimorchi trasportarono 412.193 tonnellate di materiali di vario genere, dalla Normandia alle frontiere tedesche. L’operazione partì da Saint Lo il 25 agosto 1944 e terminò il 16 novembre 1944.

Tre mesi che fecero entrare il Red Ball Express nella storia.

Il ruolo dei neri americani

Una particolarità del Red Ball Express è che tre quarti dei conduttori dei camion erano neri americani. Era un periodo di segregazione razziale e durante le ore di riposo a bianchi e neri era vietato stare insieme. “Bisognava accettare la discriminazione – ricorda Washington Rector, della 3916.ma Quatermaster Truck Company – Ci avevano avvertito di non fraternizzare con i bianchi per evitare di prenderci la febbre”. Le razze erano talmente separate che ancora oggi qualche veterano bianco ignora che la stragrande maggioranza dei guidatori fosse nero. Vent’anni dopo la fine della guerra, il Colonnello John S.D. Eisenhower, figlio del Generale Eisenhower, dichiarò : “Senza gli uomini che hanno guidato i camion del Red Ball Express questa incredibile avanzata non avrebbe mai avuto luogo“.

Un pezzo di storia inghiottito dal mare

Il mare ha inghiottito un luogo iconico dello sbarco in Normandia, Pointe du Hoc (punta di uncino), dove si consumò uno dei momenti più eroici della Seconda guerra mondiale.

A crollare è stata una parte della falesia, alta una trentina di metri, tra Omaha Beach e Utah Beach, nel comune di Cricqueville-en Bessin (Calvados).

Teatro di una carneficina

La mattina del 6 giugno 1944 le truppe del colonnello Rudder attaccarono la falesia, punto strategico del vallo Atlantico. L’obiettivo era quello di distruggere l’artiglieria tedesca che minacciava Omaha Beach. Furono impegnati 261 ranger americani. Quasi tutti furono uccisi o feriti. Una carneficina, ma l’obiettivo della missione fu raggiunto.

Il giorno più lungo

Quella che fu sicuramente una delle battaglie più dure dello sbarco fu raccontata ne “Il giorno più lungo“, film del 1962 interpretato da un cast stellare: John Wayne, Robert Mitchum, Henry Fonda, Sean Connery, Rod Steiger e Richard Burton. Alcune scene vennero girate proprio qui nell’estate del 1961.

Robert Mitchum, Henry Fonda e John Wayne in “Il giorno più lungo”

“C’era da aspettarselo”

La natura si è ripresa questo sperone roccioso che tutti credevano incrollabile. Considerato un emblema di una delle azioni militari più imponenti della storia, si è invece inabissato nell’oceano.

“C’era da aspettarselo. Pointe du Hoc resisterà ancora qualche anno, ma poi finirà per scomparire del tutto”, ha commentato Scott Desjardins, sovrintendente del sito che ogni anno viene visitato da decine di migliaia di turisti. Passeggiare lungo gli impressionanti crateri provocati dai bombardamenti aerei e navali nei giorni antecedenti lo sbarco, salire sul promontorio dove si è combattuto metro per metro, visitare i resti dei fortini pieni di passaggi segreti, è da pelle d’oca.

I crateri lasciati dalle bombe
I fortini dei soldati tedeschi

In Normandia 16 comuni a rischio erosione

L’erosione delle coste è un problema drammatico che riguarda tutto il Pianeta. In Normandia sono stati individuati 16 dei 126 comuni francesi che, secondo le disposizioni del governo, dovranno intervenire con urgenza contro questo fenomeno legato al riscaldamento globale, al costante innalzamento del livello del mare e all’urbanizzazione.

Certo è che con la Pointe du Hoc se ne va anche un pezzo della nostra storia.

Alla prossima!

Alla ricerca del silenzio perduto

Da Roma leggo spesso le notizie che riguardano la Normandia (dove sto per tornare, finalmente). Un modo per sentirmi più vicina alla mia terra d’elezione. E così qualche giorno fa sul sito di FranceInfo ne ho trovata una che mi ha ipnotizzata: a Sainte-Mère-Église, nel Dipartimento della Manica, stanno costruendo una “sala del silenzio”.

E così ho scoperto che in questo piccolo borgo, diventato famoso per un episodio legato alla Seconda guerra mondiale e ripreso nel film “Il giorno più lungo” (durante lo sbarco il soldato John Steele restò impigliato con il paracadute al campanile della chiesa), è appena arrivata una struttura in legno del tutto inedita e molto complessa, che diventerà “simbolo della pace” ma anche un invito alla meditazione. A realizzare questa “capsula” di 8,5 tonnellate, che consentirà un’immersione totale fuori dal tempo e dallo spazio, sono stati una giovane architetta, Johanna Schmidt, il suo socio Amirhossein Shirvani e il falegname Alexandre Ratel con la sua equipe. La forma arrotondata e avvolgente è stata scelta per dare un senso di sicurezza, rassicurazione e riflessione. Un luogo perfetto per meditare.

Johanna Schmidt, il suo socio Amirhossein Shirvani e Alexandre Ratel durante la costruzione della struttura

L’idea è nata dalla diocesi, che cinque anni fa ha deciso di trasformare il fienile adiacente alla chiesa Notre-Dame de la Paix in una “casa della pace”. La capsula pochi giorni fa è stata calata con una gru all’interno del fienile, sotto gli occhi ammirati della cittadinanza e delle maestranze coinvolte in questo progetto davvero particolare che vedrà la luce nel 2022.

Un progetto che trasformerà questo piccolo villaggio da simbolo del D-Day a simbolo della pace.

La futura “sala del silenzio”

In questo tempo così complicato, incerto, pieno di morte e violenza, credo che di spazi dedicati all’introspezione, alla meditazione e alla quiete dell’anima, ne dovrebbero nascere ovunque.

Alla prossima!